LA MUSICA TRA LE MANI

Di solito i direttori d’orchestra si guardano da dietro. La testa che affiora dalla buca, le linee del frac. Per ore si segue il disegno delle loro braccia che si agitano, richiamano, suggeriscono nell’aria idee e spunti all’orchestra. Noi di Increscendo abbiamo avuto il privilegio di poterne vedere uno di fronte. Giovane, giovanissimo. Potrebbe essere un nostro fratello maggiore, con i suoi 25 anni. Invece è una delle bacchette più promettenti della numerosa covata della generazione emergente, con un’agenda che già lo chiama a dirigere sui palchi di tutta Europa. Sua era stata, al Regio di Parma, la Bohème che, per noi, ha sancito il battesimo con la lirica.
Per due ore, Riccardo Bisatti si è raccontato ai nostri microfoni, con una disponibilità che ci ha sorpresi e commossi. Tra consigli, confidenze, progetti per il futuro.
Buongiorno Maestro.
Per carità, chiamatemi Riccardo, e datemi del tu!
Leonardo.
D’accordo, ma dico già che faremo parecchia fatica. Leggendo la tua biografia ho appreso che è diventato direttore d’orchestra appena maggiorenne. Qual è stato il momento decisivo, la scintilla, che ti ha portato a scegliere questa via così difficile? C’è stato qualcuno che ti ha incoraggiato o a cui ti sei ispirato?
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La mia passione è nata a Novara, la mia città, dove cantavo nel coro delle voci bianche. E, neanche a farlo apposta, Puccini probabilmente è stata la folgorazione. Da bambino vedevo il direttore come un burattinaio che teneva in mano una bacchetta capace di muovere il mondo, di creare il miracolo della musica. I miei idoli al tempo erano Muti e Abbado. Mi vedevo tutti i loro video per capirne i gesti e carpirne i segreti. Credo non esista video in circolazione che io non abbia passato al laser. Poi, come formazione, nasco pianista, come mio padre. Mi formo nella classe di Alessandro Commellato e proseguo gli studi con Maria Grazia Bellocchio, docente straordinaria che ha sfornato nomi oggi di prima grandezza come Filippo Gorini, uno dei miei più cari amici. La direzione d’orchestra nasce un po’ per gioco. Un’estate partecipavo al Festival di Piedicavallo, vicino a Biella, con altri amici pianisti. Una bellissima esperienza di musica da camera, in magnifico luogo di montagna in cui ogni anno arrivano artisti di prima grandezza e ci si diverte suonando insieme. Ero con il mio insegnante, Alessandro Commellato. Parlando di sogni per il futuro, uno di noi – Giorgio Pesenti - disse che avrebbe voluto fare il regista. Io, preso dal momento, risposi che mi sarebbe piaciuto diventare direttore d’orchestra. Da quella conversazione prese vita un allestimento last minute de “La serva padrona” di Pergolesi firmata da noi due. Il paese partecipò con comparse, costumi adattati alla meglio. Quel gioco, iniziato per entrambi in quel momento, non è ancora finito.
Alessandro
Nella tua vita hai mai incontrato difficoltà a livello scolastico o professionale? Momenti di crisi e di sconforto? Come li hai superati e che consigli daresti a chi si trovasse nella tua stessa situazione?
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Crisi vere e proprie no, ma di sicuro tanti momenti in cui, come per tutti, da liceale che studia contemporaneamente anche pianoforte, ho avvertito la pesantezza del tutto. Mi ha sempre guidato una grande passione che mi ha reso meno indigesta la fatica. I miei genitori mi hanno sempre aiutato e sostenuto, non mi hanno mai chiesto di scegliere l’uno o l’altro percorso.
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Leonardo
In queste settimane io e miei compagni ci siamo recati al Teatro Regio di Parma per assistere alla rappresentazione de “La Bohème” in cui tu eri direttore d'orchestra. Cosa rappresenta, per te, quest’opera? Qual è la chiave interpretativa che hai scelto per interpretarla?
È un’opera che conosco fin da bambino e che ho “diretto” mimando i gesti sulla traccia dei dischi dei più grandi, da Pavarotti a Freni. Per i miei 11 o 12 anni ho chiesto la partitura in regalo. Il venditore mi aveva guardato come si guarda pazzo. Una partitura complessa, difficilissima, scritta da un Puccini giovane, scalpitante, che scrive a quadri, ad impressioni, dunque con grande velocità d’effetto. La sua apparente semplicità nasconde però un grande lavoro di evocazione, di economia di mezzi e di materiali straordinaria. La mia chiave di lettura è stata quella di studiare il testo. Il testo parla, e occorre entrarci con ogni elemento. Occorre sottrarre questa partitura ai vezzi, alle tradizioni stereotipate e incrostate che spesso si sentono, restituire la fragranza della partitura. Non c’è nulla da inventare, se non da riscoprire. Poi ho letto le memorie del Maestro collaboratore di Puccini, Luigi Ricci. Sono una miniera di informazioni e di dettagli preziosi per capire anche quello che probabilmente il compositore non ha scritto ma intendeva.
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Bohème è stata per me e i miei compagni il battesimo dell’opera lirica, un’occasione resa ancor più bella e significativa dalla presenza, in teatro, di tanti ragazzi giovani, per la prova under 30. Peraltro, questa è un’opera che parla di giovinezza, di sogni, di speranze. E, in buca, c’era lei, un direttore giovanissimo. Non ho potuto non pensare che, in quel momento, Puccini parlasse a noi e di noi, in un certo senso…
Certo. Assolutamente. In buca avevo la Filarmonica di Parma, con metà delle persone costituita da studenti del Conservatorio. Quindi un’impresa più difficile ma ancor più autentica. Ci possiamo rispecchiare in quei ragazzi messi in scena da Puccini, in quegli slanci, nelle loro passioni già ben espresse dal romanzo da cui la storia è tratta. Ma adesso ditemi voi. Cosa avete provato, cosa vi ha tenuto più accesi di questa vostra prima esperienza all’opera?
Ginevra.
Rimanendo nell’ambito musicale, mi ha colpito l’aderenza tra la musica e le scene. Mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto capire quanto la musica contenga e anticipi già la trama.
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Ginevra, complimenti. Hai toccato un tasto perfetto. Puccini anticipa per tanti versi il cinema. La capacità di raccontare, di creare atmosfere, un tappeto sonoro che, oltre ad essere molto da set racconta un’azione drammaturgica, è geniale. Anche il suo collega e contemporaneo Mascagni è stato per alcuni aspetti così, ma Puccini è stato l’apripista. Il momento in cui i due personaggi principali si toccano le mani, o quello della morte di Mimì. Qualche pennellata e l’apoteosi dell’effetto è garantita. E ancora, la scena da Momus, la barrière de l’Enfer…
Alessandro.
Per me è stato il rapporto tra scena e musica a catturarmi, nel senso dell’aspetto sotteso. E lo scavo dei personaggi. Musetta, dipinta non come la donna fatale ma come l’influencer. Ecco, l’opera mi ha letteralmente spiazzato.
Certo. Musetta è il personaggio grandioso, metamorfico. Colei che presta sé stessa alla storia. Ma anche il quartetto del terzo atto. La neve ghiacciata, i bicchieri che battono da Momus. Puccini non è un verista ma un pittore di mondi sonori. Ogni volta cerco di rimanere concentrato, di non lasciarmi andare alla commozione, ma non è facile.
Leonardo.
Nel mio caso, a stupirmi è stato ciò che sta dietro alla musica. L’insieme, l’intesa tra i musicisti e il direttore. La difficoltà e la bravura di tutti voi nel reggere le sbavature, gli imprevisti.
Verissimo. A differenza del sinfonico, nel teatro d’opera c’è il momento vivo, la capacità di conciliare le distanze, i ritardi di suono. La scatola sul palcoscenico che avete visto nella regia di questa Bohème è un ostacolo al suono, ovatta tutto. I cantanti faticano a sentire l’orchestra. Allora io devo anticipare il suono. Quindi occorre essere ottimisti, scaramantici e studiare moltissimo. Tornando alla modernità, vorrei consigliarvi di leggere il libretto senza musica. È di una modernità straordinaria. Illica e Giacosa sono stati una delle carte fortunate di Puccini.
Ginevra
Tu sei uno dei direttori più promettenti della giovane generazione. Quali sono le sfide più grandi che hai affrontato fino ad ora? Come le hai superate e cosa ha imparato?
La prima sfida che un giovane direttore deve affrontare è quella di salire sul podio, magari con gente che suona in orchestra tra 30 anni. Un po’ ci si fa l’abitudine ma un po’ di tensione c’è sempre. Sfide musicali tante. Bohème è una di queste. Come direzione l’avevo studiata in Conservatorio. Poi un’altra è stata la mia prima opera: Don Giovanni di Mozart, opera che alle spalle ha la tradizione dei grandi e che è di un impianto strutturale incredibilmente complesso. In quel caso, avevo cercato di risolverla con lo stesso approccio, ovvero di mettermi davanti al testo in maniera molto umile. Noi direttori siamo dei traduttori, degli interpreti di grandi geni. A noi resta da indagare sul testo e su tutto quello che sta intorno. Il direttore deve essere un bravo lettore con lenti molto spesse che deve andare a comprendere aspetti di particolarità e di onestà. Occorre essere onesti umili. Hai a che fare con capolavori che non smettono di parlarci. Sarà sempre una sfida. Ho avuto un incontro con Riccardo Muti in cui, mentre io lo guardavo, adorante, lui mi raccontava le mie stesse operazioni. Leggere, rileggere, riprendere, mettersi in discussione.
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In un mondo frammentato da differenze che spesso sono origine e pretesto di conflitti, credo che la musica sia ancora uno dei linguaggi capaci di unire?
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Assolutamente sì, così come l’arte in generale, ma in modo ancor più universale, ancor più dichiarato. Se si pensa anche nella storia, l’aggregazione che la musica crea è qualcosa di potente, anche se siamo in un momento in cui tutto è difficile. Ma il teatro, la scuola delle emozioni, l’ascolto come elemento fondamentale. La scuola, fin dai primi anni, dovrebbe dare il passo di un cambiamento.
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Alessandro
Come pensi che la musica contribuisca a costruire l’identità culturale di una società? Qual è, secondo te, il suo ruolo nella memoria di un popolo?
Sicuramente la musica già di per sé crea un patrimonio dell’umanità dei vari paesi. Quello che occorre fare è portarla avanti, trasmetterla. Bisogna partire dalla base, tramandarla e rinnovarla, non rimanere nel ricordo ma cercarne il senso nel presente. Noi musicisti abbiamo una responsabilità di avvicinare voi giovani a questo aspetto. Controvertere la tendenza in modo da farne un patrimonio. Noi italiani abbiamo il melodramma, ma anche la musica strumentale del barocco, così come del Novecento.
Ginevra
Oggi il modo in cui il pubblico ascolta e vive la musica sta cambiando, a tuo avviso? Cosa è andato perso e cosa è stato conquistato, rispetto al passato?
Sicuramente noi oggi siamo più portati ad avere rapidità di ascolto. Viviamo in un mondo veloce, fatto di tracce di qualche minuto. Il primo atto di Don Giovanni, di quasi un’ora e mezza, richiede un impegno che necessita di gradualità. Sicuramente molto è cambiato. In passato, Strauss o Toscanini dirigevano per ore ed ore. I concerti duravano fino a notte. Poi, con il Novecento, iniziano gli atti unici. L’opera era un’industria, era un business. Gli autori dovevano seguire i gusti e le esigenze del pubblico. I cantanti erano divi capricciosi.
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Pensi che la musica abbia un potere terapeutico? Può essere davvero uno strumento di guarigione o, comunque, di elevazione? Può, insomma, la musica, renderci migliori?
Sicuramente. La musica, confermato da studi scientifici, ha un carattere capace di guarire e di agire sulla mente. Filippo Gorini ha fatto un documentario con vari professionisti per capire come essa agisca sulla mente. Vi consiglio di vederlo. Ma anche a livello emozionale, la musica è ricettacolo di tutto.
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Secondo te, quant'è importante educare le nuove generazioni all’ascolto "consapevole"? Come si può farlo senza rendere la musica un’imposizione?
Innanzitutto occorre spiegare, contestualizzare. A me piace molto quando l’artista, il direttore, incontra il pubblico e rivela, svela, accompagna all’ascolto. In questo modo, tutto diventa guidato. Non basta l’impatto del momento, se dietro non c’è una guida ad una comprensione più profonda. La consapevolezza è la chiave per amare. Io ho iniziato a fare il direttore in AsLiCo. Ho diretto Acqua Profonda, scritta da Giovanni Sollima. I bambini vengono preparati a scuola, devono interagire con lo spettacolo. In questo momento stanno preparando Falstaff. Occorre seminare. Qualcuno che raccoglie, anche pochi alla volta, c’è sempre. Occorre rompere il muro di distanza e di ossequio con il palco. La mia insegnante Maria Grazia Bellocchio mi diceva sempre che la musica è artigianato.
Un artista ha delle responsabilità sociali? La musica può e deve “dire qualcosa” o può anche esistere anche solo come bellezza fine a sé stessa?
La grande musica porta sempre in sé un messaggio assoluto, reale o metaforico, diretto o veicolato. C’è sempre un sotteso implicito.
Che ruolo avrà, secondo te, la musica classica nei prossimi cinquant’anni? Pensi che potrà ancora parlare ai cuori dei giovani, oppure sarà necessario trasformarla per sopravvivere?
C’è musica contemporanea molto interessante. Io stesso mi occupo di musica contemporanea colta, fatta da autori straordinari. Le ultime composizioni di Beethoven erano considerate opere di un folle, ricerca sonora arditissima al tempo indigesta ma capace di aprire delle strade. Mi piace la musica che esplora, che prova ad andare oltre. Purtroppo, siamo pieni di musica che si accontenta, banale, scontata.
Leonardo
Torno a Bohème. Da spettatore principiante, sono rimasto impressionato dalla sintonia tra orchestra, interpreti e ogni minimo dettaglio scenico. Mi sembrava di assistere alla visione di un film talmente era tutto magico, ma poi ritornavo alla situazione reale, magari attraverso qualche applauso del pubblico. Come direttore, qual è esattamente il tuo compito nell’essere parte di questa macchina perfetta? Come si fa, al di là delle prove, a trovare l’intesa che permette tutto questo incanto? E qual è il contributo di originalità che senti di avere dato a questa Bohème?
La libertà non vuol dire andare contro il testo. Ritorno al discorso che facevo prima. Io arrivo da un tipo di scuola che mi mette sempre davanti al testo. La libertà sta nell’interpretare nella maniera più fedele possibile quanto scritto, cercando di capire il non detto, l’implicito. Puccini è maniacale. Mozart è un altro. Altri lo sono meno. Ma si può sempre intervenire nel tessuto musicale dando un respiro ad una frase, un fraseggio leggermente diverso, una punteggiatura più pronunciata. Il belcanto sicuramente è il canovaccio più duttile, il più facile da prendere come foglio su cui scrivere come si sente di rendere. In Bohème, la mia libertà è stata quella di non adeguarsi alla tradizione. E il coraggio di andare contro a quanto la gente si aspetta. Ma oggi c’è più professionalità e, in genere, più umiltà da ogni parte. Sei stato definito a più riprese un enfant prodige della bacchetta e in alcune interviste hai dichiarato di sentire una forte responsabilità in questo senso.
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Come vinci la paura di sbagliare?
La responsabilità la sento in quanto hai in mano le redini dello spettacolo. Sei il riferimento musicale. Cerco di vincere questa pressione con la maggiore preparazione possibile. La mia idea, la mia visione della partitura maturata con concretezza, con umiltà, senza timori. Non è facile, ma poi si impara a convivere. Ogni orchestra è un essere vivo, diverso. occorre essere un po’ psicologi. La musica di Puccini è intensa, capace di trasmettere le emozioni dei personaggi in modo profondo e toccante.
Come può, un direttore, rendere tal meglio tutto questo groviglio emotivo attraverso la sua impronta nella direzione dell'opera?
Cercando di non farsi travolgere. Stando sufficientemente distante dal gorgo. Altrimenti, si rischia di venirne risucchiati. Occorre vedere la cosa dall’alto, con lucidità e, ripeto, con umiltà.
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Alessandro
Quali sono i valori cardine che le ha insegnato in questi anni la sua esperienza da direttore d’orchestra?
Umiltà, la capacità di mettersi in gioco, la duttilità, l’elasticità, la pazienza. Uno più banale è saper organizzare bene il tempo.
Ritieni che il tuo sia un lavoro o uno stile di vita? Come potresti descriverlo?
Sicuramente è uno stile di vita, oltre che un lavoro. La musica occupa ogni istante della mia vita. Poi, nel tempo libero, amo correre in bicicletta, ma la musica ti accompagna. È un lavoro molto bello, molto faticoso. Sei sempre in giro, devi adattarti a tempi, orari, luoghi, persone.
Che inviti e consigli daresti ad un giovane che vuole intraprendere questa strada?
Studiare, ma questo è banale. Uno studio non solo della musica ma di tutto il contesto in cui la musica è immersa. Cercare di avere curiosità, voglia di approfondire, coltivare le passioni. Io ho un sacco di amici pianisti che poi hanno fatto nella vita altre cose, ma la musica è rimasta nella loro esistenza. La musica aiuta a coltivare sogni. Un caro amico bravissimo, pianista, fa il cardiochirurgo. E ogni giorno, al ritorno dal lavoro, negli Stat Uniti, suona il Clavicembalo ben Temperato di Bach.
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Alessandro Micheloni
Leonardo Pietralunga
Ginevra Ravagna