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TINA ANSELMI, MIA ZIA

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L’intervista che segue apre uno sguardo profondo e autentico sulla figura di Tina Anselmi, raccontata da una testimone d’eccezione: sua nipote, Emanuela Guizzon. In un dialogo intimo e intenso, affiorano non solo i tratti della prima donna ministro della Repubblica Italiana, ma anche quelli più umani, quotidiani e familiari. Tra ricordi personali, valori condivisi e lezioni di libertà, emerge un ritratto vivo e sfaccettato, che restituisce tutta la forza morale e civile di una protagonista della nostra democrazia. Un’occasione rara per riscoprire l’eredità di Tina Anselmi, nella sua straordinaria semplicità.

 

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Marco.

Quali ricordi ha di Tina Anselmi, sia come persona che come figura pubblica? Come descriverebbe il suo carattere e la sua determinazione?

Io ho vissuto tanto con la zia. Vivevamo con una casa con la porta comunicante. Lei c’era sempre e quando era a casa non mancava mai di farmi visita, anche quando studiavo o suonavo il pianoforte. Me la ricordo molto a tavola. Lei voleva sempre condividere il momento della tavola. Si alzava sempre allegra e piena di energia. E scherzosa.  A me piace ricordare le cose che mi hanno divertita. Quando facevamo le vacanze insieme al passo Rolle, con lo zaino in spalla e le scarpe da montagna. Lei amava la montagna, era una montanara. Quando poi si trascorre tanto tempo insieme, facendo esperienze significative, ci si amalgama. E il comportamento, l’esempio, della zia, l’attenzione che dava alle persone, anche alle ultime, il senso profondo del rispetto, mi sono rimasti dentro. Ho vissuto fianco a fianco con lei, e porto dentro di me la sua figura, semplice e grandissima. Poi mi ha insegnato la libertà, il significato di essere persone libere. Non è semplice vivere da persone libere. Quando sei libera, devi continuamente scegliere come essere, come affrontare quella sfida, quella battaglia. Ogni scelta anche piccola diventa una grande responsabilità, verso te stesso innanzitutto. Non hai sponde. Devi saper fare un passo indietro. Ci vuole una grande forza.

 

Ginevra.

La libertà, secondo Lei, è singolare o collettiva?

Se voglio vivere in un Paese libero, devo partire da me, devo avere la maturità per essere libero. La democrazia, frutto della libertà, è un’assunzione di responsabilità che prima che collettiva deve essere personale. Quando zia è entrata in Parlamento, è stato il suo territorio che l’ha votata. Ma a me, singolo, sta sempre il compito di verificare. Di vigilare. Non esiste delega assoluta. Esiste la fiducia in un rapporto di mutua responsabilità che dobbiamo coltivare e rispettare, stando alle regole che ci diamo. Alla Marcia per la Pace mi è capitato di sentire il mio sindaco dire che dobbiamo rispettare le regole che ci vengono date. Ma prima di tutto dobbiamo averle condivise, socializzate.

 

Alessandro.

Quindi, se viviamo in una società malata, tossica, che ci dà regole non condivise o non trasparenti, come possiamo fare?

Se una regola è sbagliata, non ci sto. Andando agli estremi, se mi dicessero che devo uccidere, non ci sto. I sistemi, se malati, possono utilizzare anche metodi non solo coercitivi ma anche molto subdoli. Occorre stare attenti. Noi abbiamo le armi, gli strumenti, per cambiare il sistema. Abbiamo il dovere dell’informazione, della formazione, della cultura come antidoto, come anticorpo.Insisto. Quindi, qual è il confine tra il singolo e il gruppo?Io posso anche lasciare il gruppo, se non sono d’accordo. Crescendo, si vede che, se si ha consapevolezza di sé, se si riconosce il proprio valore, la propria unicità, e non si condivide la direzione del gruppo, occorre dissentire. Anche a prezzo della solitudine, della fatica, fino a quando non si incontra qualcuno che assomiglia a te. Occorre comprendere la forza, la bellezza, la nobiltà del proprio pensiero. E, quando necessario, fare un passo indietro, se si sbaglia.

 

Marco.

Il cambiamento, dunque, deve partire da noi. E come possiamo, noi, da soli, essere motori di azioni di cambiamento?

Non importa che io adesso, nell’immediato, non veda la trasformazione. Noi abbiamo fretta di avere riscontri. Ad esempio, adesso siamo dentro un imbuto di condizionamenti legati ai consumi, alle abitudini, alle modalità con cui acquistiamo, viviamo. Intelligenza artificiale, domotica. Eccetera. Magnifici, ma è fondamentale vigilare sulla propria autonomia, sulla propria abilità di pensiero. La zia diceva che, quando devo accordarmi con una persona che la pensa in modo opposto a me, quando c’è molta distanza, per me questa è la possibilità di far crescere la mia intelligenza. Perché mi costringe a tirar fuori tutto ciò che in me ancora non conosco, abilità inaspettate, capacità di un grandangolo che non pensavo di avere.

 

Elide.

Secondo Lei, la generazione di oggi è altrettanto aperta al dibattito e alla discussione serrata per trovare il migliore compromesso?

Quando parlo con i giovani, loro oggi hanno poche persone che possano essere prese a modello. Gli adulti di un tempo, non solo le staffette, hanno collaborato per rimettere in piedi un paese. Anche anonimi. Il lunedì mattina la zia apriva le porte di casa al paese. Voleva mantenere le basi di testimonianza con il territorio. E tante di loro avevano tante cose da dire. Tanti avevano dato il loro contributo. Avevamo ancora esempi vivi sotto gli occhi. Ad esempio, la casa in cui sono nate mia mamma e Tina, era in un viottolo di campagna. Lì mia nonna aveva l’osteria con case di contadini intorno. Io ricordo che fino agli anni ‘70 inoltrati c’erano ancora case che avevano la cucina e le camere con i pavimenti di terra battuta. Non c’era il bagno nelle case. I tempi in cui quegli adulti sono nati, insieme all’ambiente famigliare contadino, fortificavano. La zia, partendo da qui, ha respirato scelte di libertà e di dignità. La nonna Maria, ad esempio, con cui Tina dormiva, era scappata di casa, innamorata di un giovane delle sue stesse origini (ungheresi), si era sposata, tre figli, ed era rimasta vedova giovanissima. Fine Ottocento. Nessun diritto di eredità per le vedove, che avevano l’unico rimedio di tornare a casa. Lei, a dispetto delle convenzioni di allora, si era fatta mettere nero su bianco che le proprietà del marito sarebbero diventate sue. Ha aperto un’osteria e si è fatta imprenditrice. Si giocava a carte, a bocce. È diventato un luogo di aggregazione importante. Durante la guerra era interessante quell’ambiente. Il papà era socialista, la madre non esplicitamente schierata ma comunque molto attiva. Un grande esempio. durante la guerra, la cucina di questa casa è stata requisita dal comando tedesco, che ci ha fatto la mensa. Un’altra stanza era stata requisita dal podestà. La terza stanza era una adibita a beneficenza. La zia, che era staffetta partigiana, il cugino Mario anche lui nella resistenza, convivevano fianco a fianco con nemici. Due partigiani che non sapevano l’uno dell’altro accanto a tedeschi e fascisti. Ma tanti davano un contributo. Mettevano a disposizione fienili e stalle, copertoni per strada, nel caso tu bucassi il tuo. C’è stata una grande azione di solidarietà, a rischio e pericolo di chi la offriva. Azioni piccole ma straordinarie. Lasciare la porta aperta della stalla, un piccolo pezzo di polenta fredda. Se non avessero avuto l’aiuto di tantissima gente, anche a portare viveri su in montagna, non sarebbero riusciti. Il singolo fa il fiume.

 

Alessandro.

Tina Anselmi. Maestra, politica, ministra, donna. Dove, in quale di queste tante ramificazioni della sua espressione, possiamo trovare la scintilla della sua personalità?Nell’esserci, nel partecipare come atto di esplicitazione dell’essere. Ma anche in esperienze tragiche ed emblematiche, come quando l’hanno portata a vedere i ragazzi impiccati per essersi rifiutati di servire un’idea scellerata, ad esempio. Ecco, credo che la scintilla di zia Tina stia nell’aver avuto un’aspirazione grande, e nell’aver voluto condividerla con gli altri, al servizio di una causa comune e nobile. E una domanda personale, viste le mie aspirazioni. Politici si nasce o si diventa?

Il politico non è un lavoro ma una scelta di servizio. Tempo fa non si chiamava stipendio, ma vitalizio. Per distinguere il lavoro dal servizio. È la cosa più bella che tu possa fare, la massima responsabilità, quella che io non vedo assolutamente. Già quando Tina, nella sua biografia, dètta questo al biografo, si interroga sul momento in cui qualcosa inizia a vacillare, in cui inizia il decadimento morale. Voi potete recuperare, voi potete fare la differenza. Allora c’era una scuola diversa, un’impostazione che partiva dalla scuola dei partiti. Una formazione vera. Presto uscirà un libro con tutti i discorsi di zia Tina. E nelle sue parole ricorre continuamente l’idea dello studio, della preparazione. Lei raccomandava l’importanza dello studio, e nel frattempo faceva scuola alle filandine. Nella cultura, nell’istruzione, c’è la libertà. Lei ne è stata un faro e una bandiera.

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Marco.

Parliamo ora di Tina Anselmi staffetta partigiana. Quali erano i compiti e, soprattutto, i rischi?

 

Lei ha sempre detto che è entrata nella Resistenza perché amava profondamente la vita. Il compito di una staffetta era di portare e tenere le comunicazioni tra i gruppi sparsi, tra pianura e montagna, e andare al comando (per la zia era a Treviso). Poi smistare ordini e indicazioni in modo da coordinare la zona tra Asiago e il Monte Grappa. La zia andava a scuola a Bassano. Poteva esserci anche del materiale, fisico, da portare. Mettevano molto in guardia le donne. Il suo comandante le aveva detto di pregare che la uccidessero subito, se la avessero catturata. Potevano portare una ricetrasmittente, il materiale più pericoloso. Aveva anche un’arma, ma fortunatamente non ha mai dovuto usarla. Partiva al mattino su strade sterrate, da Castelfranco a Treviso. Prendeva ordini e andava, per 30 km di andata e di ritorno, in zona Cittadella, consegnava gli ordini e poi andava a scuola a Bassano, alle magistrali. Senza mangiare, senza colazione. In alcuni momenti arrivava sfinita. La mensa a scuola c’era, ma lei non poteva fermarsi. La nonna era tranquilla. Credeva che mangiasse a scuola. Nessuno doveva sapere. Il suo nome di battaglia era Gabriella, portatrice di grazia come l’Arcangelo. Anche con il cugino, non ha saputo niente fino a poco prima della Liberazione. Ti relazionavi solo con i tuoi diretti interlocutori. Un giorno, con la ricetrasmittente dentro la cartella ha bucato una ruota. È passato un camion con tedeschi e lei s’è fatta dare un passaggio da loro. Quando hanno tirato su la cartella hanno detto che era pesante. Lei ha risposto, con una faccia tosta pazzesca, che erano tutti libri di scuola. Quando, poi, l’ha vista arrivare con la camionetta con la delegazione tedesca, il comandante è sbiancato. Ma i rischi erano continui, quotidiani. Anche un biglietto, che doveva essere firmato dal capo brigata. Una cosa rischiosissima da trovare era il paracadute, in seta colorata, con cui gli alleati gettavano i viveri e i rifornimenti. Si dovevano nascondere subito. Una volta mia mamma aveva trovato una bomba a mano. Le sembrava un gioco, aveva 4 anni. È entrata in casa e l’ha mostrata, orgogliosa, alla mamma, dopo essere passata dall’osteria con i tedeschi dentro, tutti seduti a mangiare e a bere. La faccia della mamma era diventata color delle lenzuola…

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Qual è il legame tra la lotta partigiana e i diritti di cui godiamo oggi?

Chi ha scelto in quel momento di lottare perché il Paese fosse libero, ha anche permesso all’Italia di andare alla conferenza di Parigi facendo dire a de Gasperi non solo “l’Italia è stata salvata”, ma “si è salvata”. È stato importante per iniziare un processo democratico. La Resistenza è stata un capitolo tragico e magnifico che ha partorito la Carta costituzionale, che purtroppo stiamo tradendo in tutti i modi. Non vedo, personalmente, fedeltà odierna alla levatura alla nostra costituzione. Il valore della generazione della zia è stato quello di migliorare le condizioni di tutti, degli ultimi in primis, attuando quelli che sono i principi sanciti da quel documento. Qualcosa che hanno fatto in pochi. Lei, Moro. C’è in monito di Moro che lei aveva davanti al muro in cui lui dice che il Paese non si salverà, la stagione dei diritti finità, se non torneremo a servire quella Carta. Zia andava nelle scuole molto spesso, voleva incontrare i ragazzi, regalare la sua testimonianza. Lasciare lo spazio a nuove idee, a nuove energie. I giovani hanno un software più aggiornato per partire dalla situazione e leggerla per quel che è.

 

Ginevra.

Lei, quindi, crede nella società dei giovani come chiave per il futuro?

Credo che, se già avete una consapevolezza così alta, il Paese sarà salvo. Un Paese che vuole aspirare alla democrazia, alla maturità di popolo, deve partire dal basso, e da subito. La maturità si costruisce, non nasce. La zia diceva che da John Kennedy, incontrato nel 1962 come delegazione italiana, voleva capire le critiche per farne motore di miglioramento. Aveva spiegato che se, in uno stato democratico, anche solo uno dei suoi cittadini si sentiva inutile, aveva già fallito. Voi potete scardinare le cose. Occorre però la volontà di sapere.

 

Daryna.

Cosa significava l’8 marzo, per Tina Anselmi?

Quella data per zia aveva un significato enorme. È stata la sua generazione di donne a dare senso e spessore, sia nazionale che internazionale, al’8 marzo. Le varie iniziative di collegamento delle donne sono partite da donne come lei. Era impegnatissima. E quasi mai a casa. Arrivava a casa trafelata dopo mille discorsi. Oggi è diventato un giorno forse più di abitudine, di circostanza. Per me e le mie sorelle oggi, l’8 marzo è però soprattutto è il ricordo dell’attentato a cui siamo scampati, nel 1981. Avevano messo dell’esplosivo davanti alla nostra casa. Mio padre era fuori, zia Tina non era a casa, era stata bloccata a Milano, ed era arrivata al mattino. L’esplosivo fortunatamente non è saltato. Per qualche motivo non è saltato. Nostra nonna, mancata il Natale prima, ci aveva protetti. Questo esplosivo è stato messo dagli stessi autori della strage di Bologna, la stessa matrice. Certo, il lavoro di zia stava dando fastidio. E scegliere quella data per uccidere potenzialmente cinque donne, una famiglia, significata fermare, colpire al cuore, quel processo di evoluzione sull’emancipazione femminile che zia aveva attivato.

 

Monica.

Quale messaggio vorrebbe trasmettere, attraverso la figura di Sua zia, alle nostre generazioni?

 

Leggerla e approfondirla. Vivere le sue parole. E non avere paura di dire ciò che pensate. Abbiate il coraggio di fare la differenza e di vivere la vostra singolarità. La vostra unicità. La pace dobbiamo averla dentro. Le guerre si pianificano in tempo di pace. E questo dovrebbe bastare a farci riflettere sulla precarietà e la fragilità delle nostre certezze.

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